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CANCEL CULTURE: quando il giusto diventa intollerante

Federico Pizzarotti

Oggi che abbiamo più strumenti, cultura e consapevolezza per rapportarci diversamente gli uni agli altri, ci si aspetterebbe un dialogo più maturo, rispettoso, aperto.
Eppure, proprio in nome del rispetto e della giustizia, si stanno diffondendo pratiche che vanno nella direzione opposta.

La cancel culture, nata per dare voce agli esclusi, finisce spesso per zittire e punire chi sbaglia, anche a distanza di anni. Non si educa, si aggredisce. Non si spiega, si condanna. La gogna digitale diventa il nuovo strumento di moralismo istantaneo, slegato da contesto, intenzione e proporzione.

Si censurano libri, si coprono statue, si riscrivono storie. Ma il passato non si cancella: si studia. Solo conoscendolo possiamo davvero capire cosa cambiare.

Nel 1949 George Orwell scriveva in 1984: “Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato.”
Ed è proprio questo il punto: cancellare la storia non significa superarla, significa riscriverla a proprio vantaggio. È un atto di potere, non di giustizia.

E come spesso accade, a ogni forzatura segue una reazione uguale e contraria. Negli Stati Uniti l’onda lunga della cancel culture ha contribuito ad alimentare il consenso per Trump. In Argentina, Javier Milei ha persino fatto circolare un catalogo di insulti “leciti”, sostenendo che oggi tutto è offensivo e non ci si può più difendere. Un paradosso. Nel tentativo di proteggere la sensibilità, si finisce per dare voce a chi legittima ogni brutalità verbale.

Ma alla radice di tutto questo ci sono anche i social network, spesso usati male. Non ci si guarda negli occhi, non si conosce chi abbiamo davanti.
Molte delle aggressività che si leggono ogni giorno non accadrebbero mai dal vivo.
E tanti utenti, specialmente anziani o poco esperti, non hanno strumenti né consapevolezza per esprimersi nel modo giusto. Scrivono senza tono, senza filtri, e diventano bersagli inconsapevoli o inneschi involontari di nuove polemiche.

Gli algoritmi ci rinchiudono in bolle dove leggiamo solo chi la pensa come noi. E ci convinciamo di essere nel giusto, come se esistesse una verità assoluta. Poi, appena incontriamo un’idea diversa, la attacchiamo con rabbia, come un virus da eliminare. Non c’è dialogo, solo schieramenti.

Stiamo sprecando uno strumento che potrebbe farci crescere, condividere, capire meglio noi stessi e gli altri.
Lo usiamo invece per sfogare frustrazioni, per sentirci dalla parte giusta, per farci ascoltare a ogni costo.

Forse il problema non è chi ha sbagliato.
È che abbiamo dimenticato come si discute.
E che prima di “cancellare”, dovremmo imparare ad ascoltare.

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